Non riusciva nemmeno più a ricordare da quanto tempo si trovasse lì. Rinchiusa fra quelle asfissianti mura cubiche di pietra. Ormai era diventata una giovane donna, anche se per certi aspetti sembrava una vecchia e per altri ancora una bambina. Della bambina conservava le insicurezze e le paure mai consolate e della donna anziana infelice aveva la pelle raggrinzita e la speranza ormai perduta in un futuro inimmaginabile e dunque inesistente. Se ne stava immobile con lo sguardo fisso nel vuoto per la maggior parte del tempo. Sola e dimenticata. Possibile? Possibile che non ci fosse nessuno che si ricordasse di lei, nessuno che sentisse la sua mancanza, nessuno che la cercasse o si accorgesse della sua assenza invisibile? Tutto sembrava ormai irrimediabilmente perduto. Non riusciva nemmeno a ricordare perché l’avessero imprigionata da un tempo così immemore, e chi fosse il suo carceriere. E se si fosse immaginata tutto da sola? Se, in realtà, quello fosse un sogno – peggio, un incubo – costruito e recitato da sola, senza altri attori in gioco? No, non poteva essere un tale incubo. La sua mente ormai le giocava brutti scherzi sempre più spesso, era diventata totalmente incontrollabile e inaffidabile. Allora, forse, era meglio morire. D’altronde, in quella condizione, era come fosse già morta. Si accasciò su se stessa prendendosi il volto pallido fra le mani ruvide, ma il profondo e terribile dolore che le schiacciava il petto non riuscì a palesarsi neppure attraverso un flebile suono, un misero verso oppure un rantolo. Niente. Non le usciva nulla dalle sue labbra rosa. Da anni. Né una vibrazione, né una parola, né una preghiera, né una imprecazione. Non poteva nemmeno piangere: non le scendeva mai neppure una piccola, fragile lacrima liberatoria. Ma che razza di “mostro” era diventata? Che maledizione era mai questa? I suoi pensieri lugubri e le sue emozioni pesanti correvano di qua e di là fuori controllo, come impazzite. Già. Forse era semplicemente pazza, per questo l’aveva rinchiusa. Oppure lo era diventata a furia di rimanere lì, sola e dimenticata dal mondo. Ma tanto, che importanza aveva ora? Si era da tempo rassegnata a quella assurda condizione di non-vita e di non-morte. Comunque, non era più capace di mangiare, di muoversi, di respirare, niente: il corpo e lo spirito giacevano irrigiditi come fosse una statua di marmo, niente scorreva in lei, né il respiro, né il sangue, né la vita. Ma quanto faceva male!
Proprio al culmine di questa disperazione senza fondo, al limite del sopportabile, le parve di scorgere un lieve movimento luminoso accanto al suo viso. Alzò lo sguardo, più stupita che incuriosita, ed ecco che di fronte a lei, appoggiata delicatamente alla spessa parete di pietra, c’era una … libellula! Ma sì, non poteva sbagliarsi, da bambina le vedeva spesso e ci giocava insieme a nascondino anche. Era una grande, radiosa, lucente libellula verde e azzurra. Per una attimo, quella visione raggiante le fece scordare ogni dolore: finalmente non era più l’unica creatura di quel solitario luogo dimenticato da tutti. Si alzò molto lentamente, per il timore di farla scappare e – con un fragile sorriso di meraviglia che accennava timoroso a spuntarle sul viso – si avvicinò con cautela a quella risplendente magia con le ali. La libellula parve aspettarla pazientemente e, non appena i loro occhi furono così vicini da incontrasi, di scatto si sollevò prendendo a svolazzare allegramente per la stanza umida. La giovane, incantata e come ipnotizzata da quel volo sfavillante, prese a seguirla, perdendosi in una lieve danza a due. La ridente libellula la condusse dolcemente davanti alla stretta finestra della prigione: apertura che la giovane evitava da tanto tempo per la paura di perdersi in vane speranze di libertà puntualmente frantumate dalla realtà del suo isolamento. Ma adesso non pensava a niente di tutto ciò, dunque non si accorse nemmeno di trovarsi esattamente al centro dello spiraglio celeste, con la luce del sole che le scaldava il volto che stava riprendendo un leggero colorito. E lì, come d’incanto, vide stagliato contro il cielo limpido un enorme pavone multicolore! E stava volando proprio nella sua direzione! Sbatté le palpebre un numero infinito di volte per assicurarsi che non stesse sognando, ma quando riaprì con fermezza gli occhi, ecco che l’ultraterrena creatura si trovava in mezzo alla stanza, proprio davanti a lei. Con la sua strabiliante immensa coda aperta come un ventaglio splendente di tutti i colori più belli del mondo. La giovane donna non ebbe nemmeno il tempo di riprendersi dallo stupore, che lo stupefacente pavone inizio a parlare: “Mia cara anima prediletta, non disperare. Sono qui. Non ti ho mai dimenticato. Piuttosto, sei tu che, per un po’, ti sei scordata di guardare verso il Cielo e di chiamarmi. Non ti ricordi più, angelo mio? Se tu non pensi a me e non mi riconosci invocandomi, io non posso mostrarmi a te. Ma ora te ne sei ricordata, tesoro, brava. Hai dovuto affrontare prove durissime, lo so. Ma io ero sempre accanto a te, sai? Anche quando non vedevi, anche quando non ricordavi, anche quando ti sentivi sola e perduta. Tutto ha un senso, niente accade a caso. Niente va perduto, tutto resta dentro ciascuno di noi. Forse hai scelto la strada più difficile, chi può dirlo? Ma ora il tempo della sofferenza è terminato. Adesso può iniziare il tempo della guarigione e della gioia, se vorrai. Dipende da te, scegliere. Sempre. Io posso aiutarti, come ho sempre fatto, fin da quando eri una piccola bimbetta che ne combinava di tutti i colori, straripante di gioia e di vitalità, che svolazzava come una farfallina e si arrampicava dappertutto come una gatto selvatico. Puoi tornare ad essere felice come allora, angelo mio. Ricorda. Vai e recupera la tua Voce! Fammi sentire di nuovo il potere della tua voce, mostrala al mondo, canta la tua Anima tutta, intera e potente come è sempre stata! Canta, bambina mia, mia antica Guerriera dai fiammanti capelli di fuoco, e non smettere mai più!”
A quelle parole di potere, la giovane parve risvegliarsi da un lunghissimo sonno, come liberata da un’antica maledizione. Intatte memorie arcane si risvegliarono in lei e ripresero vita d’improvviso, così come altrettanto repentinamente il cielo si era oscurato ed una terribile tempesta iniziò a infuriare fin nella cella di pietra. Dalla finestra ora si vedevano fluorescenti lampi fiammeggianti saettare per tutto il cielo senza sosta, i tuoni li seguivano come un roboante esercito inarrestabile, e il vento, il più possente e determinato che avesse mai sentito la giovane, penetrò con veemenza nella segreta. Dapprima scompigliò ogni cosa. Poi, con sempre maggior forza, scardinò e ribaltò qualunque realtà incontrasse. Oggetti, membra, pensieri, emozioni. Tutto veniva sconquassato dalle terribili urla del vento liberatorio. Niente veniva risparmiato dalla sua furia impetuosa, dalla sua urgenza incontenibile, dal suo ciclone prorompente. Niente. Tranne la donna, che rimaneva dritta in piedi al centro della stanza, con le vesti e i lunghi capelli che vorticavano furiosamente ovunque, di fronte a lei soltanto il suo ritrovato pavone che le infondeva coraggio fissandola irremovibile. Ma lei teneva gli occhi chiusi. Rimaneva salda, nonostante la tempesta urlante, con una concentrazione e una intensità palpabili. Stava ricordando, stava radunando tutta la sua forza, la sua fermezza, la sua audacia, stava richiamando a sé tutto il suo antico potere. E poi, quasi come se lo slancio del vento che le rombava tutto intorno le avesse dato il “la” in un ben preciso momento, aprì le sue labbra rosa e intonò un canto.
Il suo canto. Che le sgorgava con ardore dalla gola, con un fervore ritrovato che lo caratterizzava: era un canto melodioso, solenne, soprannaturale, soave e allo stesso tempo possente e sonoro, robusto e intenso come il galoppo sincronico di cento cavalli selvaggi lanciati in corsa in una prateria senza confini. Era un canto che non conosceva limiti, udibile in ogni parte del mondo e dello spazio. Senza tempo. Il potere della voce cantata della donna iniziò a manifestarsi attraverso la creazione di tutto ciò che immaginava. Il suo canto incominciò a creare un paradiso di piante meravigliose, di fiori celestiali, di magici animali del bosco. Creò una radura avvolta da alberi maestosi, da laghi sacri, da creature del piccolo popolo che le venivano incontro acclamanti. Sì, perché adesso la giovane donna non si trovava più reclusa nella prigione cubica, bensì al centro di questa rigogliosa radura popolata dalle più affascinanti e autorevoli creature potesse ricordare. E tutte queste creature erano lì per lei. O meglio, erano lì in quanto richiamate dal suo intenso canto prodigioso. La donna aprì gli occhi e si mise a guardare ciò che fino ad un attimo prima stava osservando con l’occhio della mente. Le sue labbra perfette si dispiegarono lentamente, come la più bella delle rose che sboccia, in un regale sorriso colmo di gioia e gratitudine, mentre il suo canto, ora silenzioso, non cessava di sgorgarle dalla gola. Adesso tutti gli animali e le creature che aveva solo un attimo prima immaginato e visto con il terzo occhio erano radunati intorno a lei: colibrì, colombe, aquile, falchi, gazze, civette, api, lepri, scoiattoli, cervi, volpi, orsi, lupi, serpenti, rane, fate, folletti, ecc. Insieme a loro, tutti i fiori, le piante e gli alberi più magnificenti che potesse pensare palpitavano all’unisono fieri della sua presenza e della sua voce. Tutto era un trionfo di luce, colori, scintillio, armonie, tintinnii. Eppure, le sembrava mancasse ancora qualcosa. Nel momento stesso in cui l’intuito guizzò lontano dal pensiero e vicino al cuore, ecco che apparvero. Un numero incalcolabile di sfavillanti farfalle multicolori, di tutte le specie e dimensioni. Quali colori, quale grazia, quali danze, quali canti! Adesso tutto era tornato perfetto, come era all’origine. La giovane si specchiò nello sguardo del pavone – che in tutto ciò le era sempre rimasto accanto – e quello che vide non la meravigliò affatto: una bellissima e valorosa amazzone dallo sguardo fiero e nobile e dal sorriso dolce e odoroso come una viola di primavera. Circondata dalle migliaia delle sue anime sorelle. Questa affascinante e ardimentosa donna gettò indietro la folta chioma sanguigna e trillò in una risata forte e melodiosa. Lunga e liberatoria. Profondamente liberatoria.
Una fresca e leggera brezza venne a solleticarle le guance tonde e vermiglie come quelle di una bimba. Milioni di gocce quasi invisibili di una impalpabile pioggerellina luminosa le baciarono e benedirono gli occhi socchiusi sornionamente. Poi, mossa dalla forza tempestosa che le comandava il petto, si voltò e riprese il suo cammino, intonando un nuovo canto di gratitudine, vitalità e grazia.
E tutte le farfalle variopinte continuarono ad avvolgerla come un magico mantello policromo protettivo e la seguirono danzando senza posa nel suo lungo viaggio. Ma questa è un’altra storia.